Questo post è dedicato a tutte le donne morte o che anche solo hanno lottato e lottano per un ideale, per la dignità e per la libertà.
Pochissimi romani, forse neanche tutti quelli che transitano giornalmente sul Ponte dell’Industria (o Ponte di Ferro, come lo chiamano i cittadini della Capitale) e che possono notare la piccola targa posta sulla spalletta destra andando in direzione di Piazzale della Radio, conoscono quest’episodio, che tra l’altro nessun libro di storia riporta.
Mi riferisco ad un truce eccidio avvenuto il 7 Aprile 1944 nei pressi del ponte suddetto, che collega la Via Ostiense alla Portuense ed a Viale Marconi.
Sulle rive del Tevere, a quel tempo, era attivo un molino/panificio, il Tesei, che riforniva di pane e fungeva da deposito vettovaglie per le truppe tedesche che avevano invaso la città.
Roma, infatti, era al settimo (dei 9) mese d’assedio nazista (nonché al quinto anno di guerra) ed i viveri, peraltro scarsissimi, venivano distribuiti soltanto previa esibizione di una tessera annonaria. Con l’acuirsi della crisi la razione pro-capite del pane venne diminuita da un etto e mezzo ad un etto soltanto e ciò aveva già causato una serie di manifestazioni di protesta da parte di madri di famiglia nel quartiere Appio. Il 6 aprile 1944 un camion carico di pane scortato da militi fascisti fu preso d'assalto, a Borgo Pio, da una folla affamata e disperata e nello scontro uno dei miliziani fascisti perse la vita. Al Tiburtino Terzo alcune donne avevano cercato di introdursi in un deposito di granaglie e, nel tentativo di respingerle, fu uccisa Caterina Martinelli, madre di sette figli. Quindi l’assalto ai forni, da parte della popolazione stremata dalla fame, era un’azione già accaduta in diversi quartieri di Roma: ovviamente, essendo effettuato esclusivamente da donne, anziani e bambini (gli uomini erano stati, volenti o nolenti, arruolati nelle truppe fasciste), erano assalti di popolo, senza armi e senza violenza, “una cosa da donne”. Era quindi consuetudine che, allo spargersi incontrollato della voce che in qualche negozio era arrivato del pane o altri generi alimentari, immediatamente la folla accorreva per arrivare a prendere qualcosa, prima che le razioni terminassero. Finiva sempre che queste donne del popolo, spinte dalla fame e dalla disperazione di dover provvedere in qualunque modo al sostentamento dei figli, assaltassero il negozio in questione portando via quanto possibile. In genere i militi della Polizia Africana Italiana ed i tedeschi intervenivano con degli arresti o qualche sparo in aria, ma tutto finiva. lì
Quel venerdì di Pasqua del ’44 un gruppetto di donne marciò sul molino Tesei, favorito anche dalla complicità del direttore italiano del magazzino che, probabilmente con un espediente, aveva dirottato ad altre mansioni i vigilanti tedeschi; le donne riuscirono quindi ad impossessarsi di alcuni sacchi di farina e di qualche chilo di pane ma, tradite evidentemente dalla spiata di qualcuno (magari proprio altre popolane invidiose in quanto estromesse dall’azione), vennero scoperte ed inseguite dalle Camicie Nere fasciste e dai vigilanti delle SS. Una decina di loro vennero catturate proprio sulla sponda del Tevere. Stanchi dei continui assalti popolari ai forni, fascisti e tedeschi decisero, in questa occasione, di dare un “segnale forte” a tutta la popolazione romana. Alcuni soldati portarono una delle donne sotto il ponte, sulla sponda del fiume, e lì la violentarono. Poi, ancora seminuda e sotto choc, la assassinarono con un colpo di pistola alla testa. Le altre nove, furono schierate lungo il ponte e trucidate a raffiche di mitra. Sembra che sulle campate metalliche del ponte sia ancora possibile rintracciare i fori di alcuni proiettili.
I corpi delle donne, a monito per la popolazione sbigottita, vennero lasciati in terra sotto la vigilanza dei soldati tedeschi e dei repubblichini fascisti fino alla mattina seguente. Accanto ai corpi sanguinanti venne addirittura posto un cartello nel quale si parlava di quella strage definendola un esempio di ciò che, da allora, sarebbe potuto accadere alla popolazione che avesse osato effettuare ulteriori assalti a forni e negozi. Addirittura i militi fascisti, da una parte e dall'altra del ponte, costringevano i passanti ad traversare lo stesso guardando i corpi delle dieci donne uccise.
Soltanto a tarda sera, come fu successivamente riferito allo storico Cesare De Simone (un giornalista del Corriere della Sera che sull’avvenimento svolse notevoli e complicate ricerche, ed al quale si ispirò per il suo romanzo dal titolo “Donne senza nome”) dall’allora giovanissimo parroco di San Benedetto all’Ostiense, alcune suore riuscirono a posare accanto ai corpi delle candele e dei fiori. Queste sono le parole che il parroco riferì a De Simone e che io ho desunto da un articolo, a firma di Wladimiro Settimelli, del 1° Maggio 2005 dall’edizione romana de L’Unità: “Sì, le ho viste. Ho visto quelle dieci donne. O meglio, ho visto i loro corpi. Ero in chiesa e con dei parrocchiani stavo portando via le macerie dopo un bombardamento. Di corsa, erano arrivate della donne che si erano messe a gridare che dovevo correre perché al forno Tesei, le SS avevano preso dieci donne e le stavano per fucilare. Era, lo ricordo bene, il 7 aprile. Corsi e arrivai sul ponte. Le SS mi fermarono e poi arrivò anche uno della “Brigata Nera” con una”'M” rossa sul basco. Mi dissero che tutto era inutile perché le donne erano già state fucilate. Poi, mi portarono sotto il ponte e potei benedire quella creatura tutta nuda ammazzata sul posto”.
In effetti, dall’8 Aprile 1944, non si sa che fine abbiano fatto i corpi delle dieci uccise: secondo il racconto di Pericle Santini, un operaio lattoniere che lavorava nel suo sfascio sulle rive del Tevere e che, assieme ad altri operai, fu costretto sotto la minaccia dei mitra tedeschi, a caricare i dieci corpi su un camion, questi furono seppelliti in una fossa comune al cimitero del Verano.
Dopo la guerra fu posta una lapide in memoria dell’episodio, lapide divelta con un atto vandalico pochi mesi dopo.
Il De Simone, grazie ad un verbale dell’epoca redatto dalla Polizia, riuscì a risalite ai nomi delle 10 donne: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi e Silvia Loggreolo. Tali nomi sono tuttora incisi nella lapide in pietra e bronzo (opera dello scultore Giuseppe Michele Crocco) che venne posta in una aiuola sulla spalletta del Ponte dell’Industria il 7 Settembre 1977 dall’amministrazione comunale di Roma.
Malgrado si conoscano i nomi delle donne non si è mai riusciti a risalire alle loro origini: probabilmente si trattava di donne registrate all’anagrafe con il cognome del marito (come usava all’epoca) oppure arrivate a Roma da sfollate da qualche paesino e, quindi, non registrate all'anagrafe romana.
Sull’eccidio, oltre ai rimandi al De Simone, ho trovato traccia anche di due titoli di cortometraggi di Emanuela Giordano (“Le ragazze del ponte” e “7 Aprile 1944 – Storie di donne senza storia”) e di uno spettacolo teatrale (“I dieci angeli del ponte”) scritto da Alessia Bellotto e da Paolo Buglioni.
Pochissimi romani, forse neanche tutti quelli che transitano giornalmente sul Ponte dell’Industria (o Ponte di Ferro, come lo chiamano i cittadini della Capitale) e che possono notare la piccola targa posta sulla spalletta destra andando in direzione di Piazzale della Radio, conoscono quest’episodio, che tra l’altro nessun libro di storia riporta.
Mi riferisco ad un truce eccidio avvenuto il 7 Aprile 1944 nei pressi del ponte suddetto, che collega la Via Ostiense alla Portuense ed a Viale Marconi.
Sulle rive del Tevere, a quel tempo, era attivo un molino/panificio, il Tesei, che riforniva di pane e fungeva da deposito vettovaglie per le truppe tedesche che avevano invaso la città.
Roma, infatti, era al settimo (dei 9) mese d’assedio nazista (nonché al quinto anno di guerra) ed i viveri, peraltro scarsissimi, venivano distribuiti soltanto previa esibizione di una tessera annonaria. Con l’acuirsi della crisi la razione pro-capite del pane venne diminuita da un etto e mezzo ad un etto soltanto e ciò aveva già causato una serie di manifestazioni di protesta da parte di madri di famiglia nel quartiere Appio. Il 6 aprile 1944 un camion carico di pane scortato da militi fascisti fu preso d'assalto, a Borgo Pio, da una folla affamata e disperata e nello scontro uno dei miliziani fascisti perse la vita. Al Tiburtino Terzo alcune donne avevano cercato di introdursi in un deposito di granaglie e, nel tentativo di respingerle, fu uccisa Caterina Martinelli, madre di sette figli. Quindi l’assalto ai forni, da parte della popolazione stremata dalla fame, era un’azione già accaduta in diversi quartieri di Roma: ovviamente, essendo effettuato esclusivamente da donne, anziani e bambini (gli uomini erano stati, volenti o nolenti, arruolati nelle truppe fasciste), erano assalti di popolo, senza armi e senza violenza, “una cosa da donne”. Era quindi consuetudine che, allo spargersi incontrollato della voce che in qualche negozio era arrivato del pane o altri generi alimentari, immediatamente la folla accorreva per arrivare a prendere qualcosa, prima che le razioni terminassero. Finiva sempre che queste donne del popolo, spinte dalla fame e dalla disperazione di dover provvedere in qualunque modo al sostentamento dei figli, assaltassero il negozio in questione portando via quanto possibile. In genere i militi della Polizia Africana Italiana ed i tedeschi intervenivano con degli arresti o qualche sparo in aria, ma tutto finiva. lì
Quel venerdì di Pasqua del ’44 un gruppetto di donne marciò sul molino Tesei, favorito anche dalla complicità del direttore italiano del magazzino che, probabilmente con un espediente, aveva dirottato ad altre mansioni i vigilanti tedeschi; le donne riuscirono quindi ad impossessarsi di alcuni sacchi di farina e di qualche chilo di pane ma, tradite evidentemente dalla spiata di qualcuno (magari proprio altre popolane invidiose in quanto estromesse dall’azione), vennero scoperte ed inseguite dalle Camicie Nere fasciste e dai vigilanti delle SS. Una decina di loro vennero catturate proprio sulla sponda del Tevere. Stanchi dei continui assalti popolari ai forni, fascisti e tedeschi decisero, in questa occasione, di dare un “segnale forte” a tutta la popolazione romana. Alcuni soldati portarono una delle donne sotto il ponte, sulla sponda del fiume, e lì la violentarono. Poi, ancora seminuda e sotto choc, la assassinarono con un colpo di pistola alla testa. Le altre nove, furono schierate lungo il ponte e trucidate a raffiche di mitra. Sembra che sulle campate metalliche del ponte sia ancora possibile rintracciare i fori di alcuni proiettili.
I corpi delle donne, a monito per la popolazione sbigottita, vennero lasciati in terra sotto la vigilanza dei soldati tedeschi e dei repubblichini fascisti fino alla mattina seguente. Accanto ai corpi sanguinanti venne addirittura posto un cartello nel quale si parlava di quella strage definendola un esempio di ciò che, da allora, sarebbe potuto accadere alla popolazione che avesse osato effettuare ulteriori assalti a forni e negozi. Addirittura i militi fascisti, da una parte e dall'altra del ponte, costringevano i passanti ad traversare lo stesso guardando i corpi delle dieci donne uccise.
Soltanto a tarda sera, come fu successivamente riferito allo storico Cesare De Simone (un giornalista del Corriere della Sera che sull’avvenimento svolse notevoli e complicate ricerche, ed al quale si ispirò per il suo romanzo dal titolo “Donne senza nome”) dall’allora giovanissimo parroco di San Benedetto all’Ostiense, alcune suore riuscirono a posare accanto ai corpi delle candele e dei fiori. Queste sono le parole che il parroco riferì a De Simone e che io ho desunto da un articolo, a firma di Wladimiro Settimelli, del 1° Maggio 2005 dall’edizione romana de L’Unità: “Sì, le ho viste. Ho visto quelle dieci donne. O meglio, ho visto i loro corpi. Ero in chiesa e con dei parrocchiani stavo portando via le macerie dopo un bombardamento. Di corsa, erano arrivate della donne che si erano messe a gridare che dovevo correre perché al forno Tesei, le SS avevano preso dieci donne e le stavano per fucilare. Era, lo ricordo bene, il 7 aprile. Corsi e arrivai sul ponte. Le SS mi fermarono e poi arrivò anche uno della “Brigata Nera” con una”'M” rossa sul basco. Mi dissero che tutto era inutile perché le donne erano già state fucilate. Poi, mi portarono sotto il ponte e potei benedire quella creatura tutta nuda ammazzata sul posto”.
In effetti, dall’8 Aprile 1944, non si sa che fine abbiano fatto i corpi delle dieci uccise: secondo il racconto di Pericle Santini, un operaio lattoniere che lavorava nel suo sfascio sulle rive del Tevere e che, assieme ad altri operai, fu costretto sotto la minaccia dei mitra tedeschi, a caricare i dieci corpi su un camion, questi furono seppelliti in una fossa comune al cimitero del Verano.
Dopo la guerra fu posta una lapide in memoria dell’episodio, lapide divelta con un atto vandalico pochi mesi dopo.
Il De Simone, grazie ad un verbale dell’epoca redatto dalla Polizia, riuscì a risalite ai nomi delle 10 donne: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi e Silvia Loggreolo. Tali nomi sono tuttora incisi nella lapide in pietra e bronzo (opera dello scultore Giuseppe Michele Crocco) che venne posta in una aiuola sulla spalletta del Ponte dell’Industria il 7 Settembre 1977 dall’amministrazione comunale di Roma.
Malgrado si conoscano i nomi delle donne non si è mai riusciti a risalire alle loro origini: probabilmente si trattava di donne registrate all’anagrafe con il cognome del marito (come usava all’epoca) oppure arrivate a Roma da sfollate da qualche paesino e, quindi, non registrate all'anagrafe romana.
Sull’eccidio, oltre ai rimandi al De Simone, ho trovato traccia anche di due titoli di cortometraggi di Emanuela Giordano (“Le ragazze del ponte” e “7 Aprile 1944 – Storie di donne senza storia”) e di uno spettacolo teatrale (“I dieci angeli del ponte”) scritto da Alessia Bellotto e da Paolo Buglioni.
5 commenti:
Io abito a Roma e mi capita spesso di attraversare in macchina il ponte dell'industria e ogni volta ho l'impressione di fare un balzo indietro nel tempo. Ora il gazometro non è più utilizzato ma da bambina, quando si passava sulla via Ostiense o sul ponte Marconi si osservare in lontananza che il suo livello variava di giorno in giorno secondo il il consumo del gas. Lì vicino c'era anche una raffineria chiamata "Purfina" da cui si alzava sempre una fiamma e l'odore dell'aria a volte era acre.
La prossima volta che passo da lì voglio sofffermarmi vicino alla lapide in onore di quelle donne coraggiose e disperate.
Leggendo questo tuo post ho ricordato quando mia madre ci raccontava delle file interminabili che aveva fatto in tempo di guerrra per rimediare un po' di farina.
Allora era una ventenne obbligata dagli eventi a crescere molto in fretta.
Ciao SILVANA: anch'io ricordo bene il gazometro, anzi, i due, visto che c'è anche quello più piccolo (e vorrei dedicargli un post già da tempo).
La Purfina, invece, non la ricordo.
Eh si, purtroppo quella generazione fu costretta a crescere in un battibaleno, ma almeno crebbe con dei valori positivi...
letto solo oggi la tua risposta sull'altro tuo blog,perdonami!ammetto di non avere molto tempo in questo periodo per leggere approfonditamente quest'altra tua creatura,ma si intuisce molto bene la passione per il sapere,la cultura...merce rara di questi tempi!grazie di avermelo segnalato e ripasserò appena posso per uno sguardo più -giustamente e meritatamente- attento!complimenti e buon fine settimana
giulia
Non si è mai risalito all'origine di quelle donne semplicemente perché ancor oggi non c'è nessuna prova che quel fatto orrendo sia veramente avvenuto. Se ne cominciò a parlare molti anni dopo la guerra e non ne sapeva nulla nessuno.
Concordo, l'episodio è controverso, non è certo che sia avvenuto
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