Non sono molti i personaggi, con nome e cognome, che, per meriti o colpe, si sono visti dedicare un sonetto nientemeno che da Giuseppe Gioachino Belli.
Uno di questi personaggi, che di sonetti se ne vide dedicare ben due, dal medesimo titolo, fu la rinomata prostituta “Santaccia di Piazza Montanara”.
Nel caso di Santaccia, che nelle note ai suoi stessi sonetti del 12 dicembre 1832 il Belli descrive come “Notissima e sozzissima meretrice di chiara memoria, la quale teneva commercio nella detta piazza, solito luogo di convegno dei lavoratori romagnoli e marchegiani, per trovarvi a far opera“, più che per colpe possiamo affermare che la dedica dei sonetti le venne per “meriti acquisiti in campo”.
Per iniziare a parlare di una delle più famose o, meglio, famigerate meretrici della storia romana dobbiamo far presente al lettore che Roma non è soltanto begli scorci, monumenti strabilianti, tramonti incantevoli e vita rose e fiori. Non lo è mai stata… anzi...
La vita del popolo, nella Roma dei secoli scorsi (ma ora, in effetti, non è che si stia tanto meglio), è sempre stata una vita di stenti, di fatiche, di privazioni.
Non dimentichiamo come il Papa Re abbia tenuto, per secoli, alla sottomissione del popolo romano: tutte le feste cristiane, direttamente traslate dal paganesimo dei secoli precedenti, erano, infatti, più che altro un pretesto per tenere il popolino sempre sotto il diretto controllo delle autorità vaticane. Già nel regno borbonico, d'altronde, vigeva il detto che il popolo si poteva controllare, e tenere sottomesso, mediante le "...tre effe: farina, forca e feste".
Il popolino romano quindi passava da periodi di stretta quaresima ed osservanza delle regole religiose più privative, alla goduria più sfrenata, in campo eno-gastronomico come in quello ludico e perfino sessuale. Ne erano un chiaro esempio le feste di San Giovanni (in Laterano) e l’ancora più famoso Carnevale romano. Eppure c’è da dire che, proprio in concomitanza di tali festività, e maggiormente proprio per le due appena citate, alle centinaia di meretrici romane, conosciute molto bene (anche e soprattutto a livello intimo) dalle autorità ecclesiastiche, non solo veniva sospesa “l’attività lavorativa” ma era perfino vietato lo scendere in strada o, addirittura, l’affacciarsi alla finestra mostrandosi in pubblico. Questo sempre per il rispetto e la moralità dovuti alla festività religiosa.
Roma, fino ai primi decenni del ‘900, poteva in effetti essere considerata quasi una “somma di paesi”: ogni rione aveva la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi personaggi, i suoi nemici, da identificare per lo più con i popolani di rioni vicini (celebre è lo storico antagonismo tra gli abitanti dei rioni Monti e Trastevere, divisi addirittura dal fiume Tevere: rivalità che, spesso e per i motivi più futili, si risolveva in scontri a lancio di pietre in Campo Vaccino o addirittura a coltellate).
La povertà e l’ignoranza, a quei tempi, erano la norma (come detto, proprio su queste condizioni faceva leva il Papa Re per rafforzare il suo controllo sulla popolazione) e ci si accontentava forzatamente di poco, riservando, appunto, le poche occasioni di sfogo alle festività.
Consideriamo, poi, che fin dal 22 a. C. tutti i lavoranti delle arti e dei mestieri (macellai, falegnami, cuoiai, fabbri…) erano di fatto costretti, in modo coattivo, ad iscriversi ai relativi Collegi, associazioni nate quasi con la stessa Roma per volere del secondo re, Numa Pompilio, e che pure ebbero grande importanza, nei secoli, nella storia politica ed economica della città: fin dalla più tenera età i ragazzini venivano di fatto sottratti alle famiglie e, per pochi spiccioli, venivano adottati da artigiani che, passandogli solo ed esclusivamente vitto e alloggio (nelle stesse botteghe in cui di giorno prestavano la loro opera), gli permettevano di imparare un mestiere. Soltanto dopo molti anni di apprendistato, e con il beneplacito dell’associazione di appartenenza (oltre che ad un cospicuo obolo da corrispondere annualmente alla stessa), questi artigiani potevano permettersi di aprire una bottega propria o di rilevare quella del proprio maestro, oramai anziano.
In effetti i Collegia, e poi le Confraternite o le Università, erano come delle grandi famiglie: in essi, oltre all’attività commerciale, era tenuta in grande considerazione l’attività religiosa. Entrambe le funzioni erano infatti strettamente correlate ed i soci, oltre che per curare i reciproci affari, si riunivano periodicamente per presenziare a riti religiosi (ogni associazione aveva una propria chiesa, costruita con l’autofinanziamento e dedicata alla propria “arte”), per riunioni conviviali o per intervenire a riti funebri di soci deceduti, dei quali gli stessi confratelli di facevano carico per le spese di tumulazione e, in caso di necessità, per l’assistenza economica dei familiari superstiti.
Papa Paolo II, nel settembre del 1469, attraverso la stesura di un “Corpus Statutorum” cercò di abrogare tutte le leggi cadute, nel corso dei secoli, in disuso, introducendo normative necessarie per una restaurazione dell’ordinamento civile ed amministrativo.
Per quanto riguardava le Corporazioni, le nuove disposizioni furono raccolte nel “Libro del Diritto Amministrativo” e riguardavano la tutela e la sorveglianza di ogni attività commerciale ed industriale, inquadrata e disciplinata nell’ordinamento corporativo delle “Arti e dei Mestieri”, da sottoporre di volta in volta alla conferma senatoriale (ricordiamo che le maggiori corporazioni avevano la propria sede nel Palazzo Senatorio in Campidoglio).
Il 1° agosto 1612 papa Paolo V, per riportare definitivamente l’ordine e la morigeratezza sia nella vita cittadina che nella pubblica amministrazione, riordinò l’amministrazione civica ed ecclesiastica romane ponendole sotto la diretta autorità pontificia.
Il “Libero Comune di Roma” perse così la sua autonomia e la scelta dei candidati alle cariche pubbliche fu, da quel momento, sottoposta all’approvazione della Curia Vaticana.
Fatta questa anticipazione non si fa fatica a pensare che l’unico modo che potesse trovare una ragazza, senza istruzione, senza rendite familiari o “raccomandazioni”, per poter vivere, avesse alternative diverse dalla strada.
Certo alcune donne, la maggior parte delle quali era costretta dalla necessità soltanto a doversi dedicare alla numerosa famiglia o al lavoro nei campi, potevano avere la fortuna di effettuare lavori sartoriali, di servitù o di supporto all’osteria del marito: in via dei Balestrari, nel ‘700, era l’”Osteria del Cameo”, chiamata così per via della moglie dell’oste che, per la sua bellezza, si dice fosse custodita dal marito come un cameo prezioso, tanto che, per gelosia, questo non le permetteva neanche di scendere nei locali dell’osteria e mostrarsi agli avventori.
Altre potevano aspirare a fare la perpetua o dedicarsi alla vita monastica: in quest’ultimo caso rientravano, in genere, le appartenenti a famiglie nobili o benestanti.
Ma, a ben vedere, anche il mestiere della perpetua poteva avere dei rischi, e il Belli ce lo dice chiaramente nel sonetto
LA BBELLEZZA DE LE BBELLEZZE
Ce ponn’èsse in ner monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nòva der curato
nun ze trova, per Dio, drent’a le stelle.
Nun te dico er colore de la pelle
piú ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che tt’appicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du' occhi, so' rrobba, Ggiuvanni,
da fàtte resta' llí ssenza parola.
Si è ttanta bella a védela vistita,
Cristo, cosa sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita!
Ci possono essere al mondo donne belle,
ma un tòcco di carne prelibato
come la serva nuova del curato
non si trova, per Dio, nel firmamento.
Non ti dico il colore della pelle
assai più soda di quella di un tamburo:
non ti dico delle natiche e del seno,
che ti accendono il fuoco nelle budella.
Quel naso, quella bocca,
quei due occhi, sono cose, Giovanni,
da farti restare senza parola.
Se è tanto bella a vederla vestita,
Cristo, cosa sarà sotto i vestiti!
Beato il prete che se la gode!
Ma la gran parte delle ragazze non aveva fortuna: la loro era praticamente una scelta obbligata.
In verità, malgrado la loro “professione” fosse proibita dalle leggi, c’è da dire che, spesso, le autorità papaline chiudevano un occhio, e tralasciamo di dirne i motivi, ma vi basti sapere che molte di esse venivano definite "donne curiali".
Le puttane erano un soggetto particolarmente caro al Belli, come vedremo, poi, in successivi sonetti: rifacendoci a quanto appena detto leggiamo questo sonetto, in cui il poeta contrappone il Vicario papale ad una meretrice di strada, cercando di farle ammettere la colpa della sua professione. Lei, dapprima, nega con grande dialettica e furbizia, salvo poi crollare, svelandosi, con le parole che, quasi comicamente, il Belli le fa pronunciare, invitando lo stesso vicario in casa sua per dimostrargli la sua presunta castità:
ER GIUDISCE DER VICARIATO
Senta, sor avocato, io nun zo' mmicca
da nun intenne cuer che llei bbarbotta.
Lei me vo' ffà sputa' ch’io sa' mmignotta:
ma sta zeppa che cquà nun me la ficca.
La verità la dico cruda e ccotta,
ma cquesta nu la sgozzo si mm’impicca.
S’io me fesce sfasscia' ffu pe una picca,
pe ffa' vvede' cche nu' l’avevo rotta.
D’allor’impoi sta porta mia nun usa
d’oprisse a ccazzi: e ssi llei vo' pprovalla,
sentirà cche mme s’è gguasi arichiusa.
...Bbè, rrestamo accusí: su un’ora calla
lei me vienghi a bbussa' co cquarche scusa,
e vvederemo poi d’accommodalla.
Senta, signor giudice, io non sono stupida
da non capire quel che lei borbotta.
Lei mi vuole far ammettere che io sono mignotta,
ma a questo tranello io non abbocco.
La verità sono abituata a dirla cruda e cotta,
ma questa non la riconosco neanche se m’impicca.
Se io mi feci sverginare fu per ripicca,
per dimostrare che ero ancora illibata.
Ma da allora in poi questa porta ha l’abitudine
di non aprirsi a cazzi: e se lei vuole provarla
sentirà che mi si è quasi richiusa.
Va bene, restiamo d’accordo così: verso un’ora calda (nel dopopranzo)
lei venga a bussare a casa mia con qualche scusa,
e vedremo poi di risolvere la questione.
In alcuni casi le ragazze di strada erano addirittura tutelate: esisteva, infatti, un ospedale (di San Rocco), cui si potevano rivolgere le donne partorienti al di fuori del matrimonio, ed un altro (il San Gallicano) per la cura delle malattie veneree: la sifilide e la gonorrea su tutte.
In Via de' Funari, promossa da sant’Ignazio nel 1543, fu fondata una Congregazione chiamata, come l’omonima chiesa, di “Santa Caterina della Rosa”, che aprì un conservatorio per ospitare le “figlie di donne di mala vita”. Queste ragazze erano chiamate “Figlie del luogo”. Il Blasi, nel suo “Stradario Romano” riporta: “…Cotesto Conservatorio divenne, per così dire, un seminario di spose per artigiani, alle quali, nel giorno del matrimonio, davasi una dote di cinquanta scudi, denaro proveniente da fondi legati all’Ospizio da ricche cortigiane…”. Usanza, questa, che cessò solamente il 25 novembre del 1611.
Dipinto di Joseph Heintz raffigurante Tullia d'Aragona, cortigiana del '500 e figlia d'arte di Giulia Ferrarese, definita "La più celebre bellezza del suo tempo"
In molte città, non soltanto a Roma (in realtà la prima di cui si abbia traccia era presso l'Ospedale dei Canonici di Marsiglia, nel 1188), per le ragazze-madri che non potevano occuparsi dei propri neonati, era anche attiva una "ruota degli esposti" (o dei "proiecti", termine derivato dal latino "proiectus", da "proicere" = deporre, abbandonare): lungo le mura di un convento o di un ospedale, comunicante con l'interno della struttura, era una nicchia con un cilindro girevole in legno, con uno sportello aperto dal lato della strada e protetto da una grata in ferro battuto, con una apertura tanto grande da poterci far passare il neonato.
Da questa grata, spesso di notte, veniva inserito all'interno del cilindro l'infante. Suonando una campanella posta vicino la ruota era possibile avvisare i canonici che c'era un nuovo pargolo di cui prendersi cura. Accanto alla ruota era una cassetta per le elemosine nella quale la stessa madre, o chiunque altro, poteva lasciare un obolo anonimo destinato alle cure dei bambini abbandonati.
A Roma la ruota degli esposti fu istituita, nel 1198, da papa Innocenzo III presso l'Ospedale di Santo Spirito in Sassia, dove ancora oggi si può ammirare: questa istituzione fu necessaria a seguito delle tante rimostranze dei pescatori del Tevere fatte al papa perché spesso tanti bambini indesiderati venivano addirittura gettati nelle acque del fiume dalle donne che non se ne volevano o potevano occupare e venivano ritrovati, appunto, senza vita dai pescatori.
Assieme al neonato potevano essere posti, nella ruota, oggetti attraverso i quali, successivamente, l'infante avrebbe potuto essere riconosciuto da chi si era visto costretto ad affidarlo alle cure dei monaci.
Un paio di curiosità, legate alle ruote degli esposti, caratterizzano il significato della parola "mignotta" e del cognome Proietti. Infatti, quando un neonato veniva abbandonato in questo modo, i monaci lo annotavano anagraficamente come "filius mater ignotae". Con il tempo, e la volgarizzazione del latino, la frase si contrasse nell'unico termine mignotae, da cui mignotta. Per quanto riguarda il cognome Proietti, tanto diffuso soprattutto nel centro Italia, rifacendoci a quanto detto poc'anzi, è da chiarire come questo derivi dalla parola "proiectus" = abbandonato. Infatti Proietti era uno dei cognomi più comuni con cui venivano registrati all'anagrafe gli orfanelli o i neonati abbandonati.
L'istituto delle ruote venne definitivamente abolito soltanto nel 1923, durante il governo di Mussolini, con il "Regolamento generale per il servizio d'assistenza agli Esposti".
Ma torniamo al soggetto della nostra discussione.
Soltanto poche fortunate donne potevano permettersi trucchi e belletti, tessuti o merletti, appartamenti ed arredi di pregio. Queste ultime si sono forse potute contare con le dita di una mano e, tra le cortigiane che divennero famose con l’appellativo di “onorate puttane”, nella zona di via dei Banchi Nuovi, le più celebri furono Laura Bona ed Imperia De Grassis (il cui vero nome era Lucrezia, figlia anch'essa di una modesta meretrice e di un maestro di cerimonie della corte pontificia).
Bellissime ed amanti del bello, della seconda, preda ambita da molti cardinali, si diceva: “Chi vide la cortigiana Imperia nuda, vide Venere nuda”.
Definita "la Divina Imperia", fu famosa, ai suoi tempi (nacque il 3 agosto 1481), per la sua cultura e la sua grazia compositiva.
Raffaello Sanzio pretese più volte che fosse lei musa ispiratrice e modella di tante pitture da lui realizzate.
La cortigiana Imperia, raffigurata da Raffaello Sanzio nei panni di Psiche,
nell'affresco "Eros e Psiche", nella Villa Farnesina del suo amante Agostino Chigi
Queste cortigiane, che avevano per clienti nobili, aristocratici ed alti prelati, arrivarono ad avere tali ricchezze che le loro case erano colme di oggetti d’arte: arazzi, tappeti, mobili intarsiati, oggetti ed arredi di pregio, servitù… Sempre parlando di Imperia si dice che, nella sua casa (donatale da Agostino Chigi, nei pressi di Castel Sant'Angelo), in attesa di essere ricevuto dalla cortigiana, un ambasciatore spagnolo, preso dall’urgenza di sputare una presa di tabacco, pur di non farlo su un tappeto, non trovò altro luogo in cui poterlo fare se non sul viso di un valletto.
Alcune di loro ebbero anche un alto potere politico, viste le personalità che frequentavano, tanto che la solita Imperia, morta all’età di 31 anni (suicidatasi, per la legge del contrappasso, a seguito di una delusione d'amore), venne benedetta in “articulo mortis” addirittura da papa Giulio II e tumulata nella Chiesa di San Gregorio Magno, al Celio.
Tela di Innocenzo Francucci da Imola, raffigurante Giovanna (Vannozza) de Candia dei Cattanei, amante prima di Giuliano della Rovere (papa Giulio II) e poi
(una delle tante, seppur la preferita), di Rodrigo Borgia (papa Alessandro VI),
cui diede ben quattro figli, tra cui Lucrezia (Borgia)
Per il vero c’è da dire che la maggior parte delle meretrici romane, spesso anche di aspetto non proprio piacente, doveva dedicarsi ad accontentare le voglie di popolani, braccianti e venditori.
In uno dei suoi primi sonetti, "A ccompar Dimenico", il Belli illustra all'amico Domenico Biagini, in verità in modo molto diretto e maschilista, le grazie di una ragazza “bianca e roscia”, “chiapputa e badialona” e “matta da legare”, di cui il poeta stesso si era innamorato:
...Me so' ffatto, compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona,
co' ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche, pe' ddio, che cce se sguazza...
Mi sono trovato (o, più crudamente, "ho fatto sesso con"), compare, una ragazza
bianca (di carnagione) e rossa (di capelli), con grandi natiche e prosperosa,
con una faccia da matta ingannatrice,
e due seni, per Dio, in cui ci si perde
Il sonetto poi prosegue con il Belli che minaccia di sfidare a duello l'amico stesso se questi avesse solo osato "provarci" con la sua bella.
Si la vedessi cuanno bballa in piazza,
cuanno canta in farzetto, e cquanno sona,
diressi: "Ma de che? mmanco Didona,
che squajjava le perle in de' la tazza".
Si ttu cce vòi veni', dda bbon fratello,
te sce porto cor fedigo e ' 'r pormone;
ma abbadamo a l'affare de l'uscello.
Perché si ccaso sce vòi fa' er bruttone,
do dde guanto a ddu' fronne de cortello
e tte manno a Ppalazzo pe' cappone.
Se la vedessi quando balla in piazza,
quando canta e quando suona,
diresti: "Accipicchia, neanche Didone,
(anche se qui l'autore confonde Didone con Cleopatra)
che squagliava le perle nella tazza".
Se tu vuoi venire a conoscerla, da buon amico,
ti ci porto con fegato e polmone (vale "con tutto il cuore");
ma stai attento al tuo membro.
Perché se per caso vuoi farci il cascamorto,
afferro il coltello in un attimo
e ti mando a far parte del coro dei castrati della Cappella Pontificia.
In particolare, in questo sonetto, sono curiosi ed insoliti i termini "badialona" (da badiale, originario da badia, abbazia, quindi ad indicare una donna eccezionale, ma anche abbondante, opulenta, florida) e "buggiarona" (qui sta per "matta da legare"; generalmente “buggerare” significava letteralmente “imbrogliare” ma, anticamente era un termine utilizzato per indicare l’atto carnale della sodomia: “Buggera’ Santaccia” (che può letteralmente e crudamente tradursi in “nel di dietro a Santaccia”) era un modo di dire molto usato fino all’Ottocento e stava ad indicare proprio l’atto sessuale sodomita, che traslato nel linguaggio, voleva dire “ingannare gravemente”.
Non avendo possibilità (proprio per la mancanza di avvenenza, per la povertà o per le umili origini), di ospitare nei propri appartamenti i clienti, le meretrici del popolino erano costrette a svolgere i propri uffici nelle pubbliche piazze, magari al riparo di una siepe o tra i ruderi di Campo Vaccino (l’area del Foro Romano, a quei tempi non ancora parco archeologico ma pascolo di pecore e capre).
Anche Santaccia, originaria di Corneto (l’attuale Tarquinia), operava nella zona di Campo Vaccino e, in particolare, la sua alcova era la stessa piazza Montanara, così chiamata per la nobile famiglia Montanari, poi estintasi nei Cesarini, che vi risiedeva, come si evince da un documento del 1479.
Piazza Montanara in una fotografia di inizio '900
Come detto piazza Montanara, ora demolita, era tra il Foro Olitorio (l'antico mercato della frutta e della verdura) ed il Foro Boario (il mercato della carne), nella zona compresa tra il fiume Tevere, all’altezza dell’isola Tiberina, la chiesa di Santa Maria in Cosmedin – dove tutt’oggi è la famosa Bocca della Verità – e l’erta che, partendo dal Teatro di Marcello, portava al Campidoglio: era la piazza al tempo deputata al reclutamento delle maestranze agricole. Qui, infatti, si riunivano giornalmente i braccianti agricoli che, provenienti dal Lazio e dall’Abruzzo, venivano assoldati a giornata, per un tozzo di pane, per raccogliere i prodotti dei campi di proprietà dei nobili romani. Arrivavano a Roma nel tardo pomeriggio, dormivano a terra, coperti da un pastrano, dopo aver mangiato qualcosa che si erano portati dietro dalla campagna, e la mattina successiva, di buon ora, erano pronti per essere assoldati e per prestare la loro opera nei campi dell’agro romano.
Contadini e popolani in Piazza Montanara
(foto di Ettore Roesler Franz)
Per questo la zona era frequentata, oltre che da contadini e mezzani, anche da caporali che procuravano loro il lavoro per conto dei proprietari terrieri, da venditori ambulanti, da barbieri di strada e da scrivani.
I barbieri erano attivi soprattutto nelle piazze di Campo de' Fiori, del Portico d’Ottavia ed a Campo Vaccino: accostate ai muri delle case di queste strade si vedevano alcune sedie, che servivano loro da bottega: tra di essi rinomato fu il “barbiere della meluccia”, così chiamato perché usava mettere una piccola mela nella bocca di chi andava a farsi fare la barba, affinché questi avesse la guancia ben “arrotondata”, per permettere una migliore rasatura. Si dice che la meluccia fosse sempre la stessa per tutti i clienti della giornata e che soltanto l’ultimo cliente avesse il privilegio di poterla mangiare a fine giornata lavorativa…
Un barbiere di strada agli inizi del '900
Rifacendoci al discorso di poc'anzi delle Corporazioni, è da rimarcare come i barbieri potessero aprire una bottega propria soltanto dopo aver compiuto i 24 anni e con il beneplacito della Corporazione dei Barbieri, i cui protettori, praticando essi anche la bassa chirurgia, erano i santi Cosma e Damiano, due fratelli medici arabi, uccisi e gettati in una fornace ardente, al periodo delle persecuzioni sotto l’imperatore Diocleziano.
I lavoranti dei barbieri, invece, che fondarono la propria Corporazione nel 1688, avevano ben due sante protettrici: Santa Rosalia di Palermo e Santa Rosa di Viterbo.
Gli scrivani erano seduti in piazza Montanara con avanti i loro piccoli tavolini: erano a disposizione, ovviamente retribuiti, di quanti, analfabeti, avessero avuto bisogno della loro opera per la scrittura di lettere per far avere notizie ai propri cari o per richiedere ufficialmente un pagamento non ricevuto.
Tutti noi ricordiamo la scena di un film in cui Totò fa da scrivano ad un burino che, avendo finito i propri soldi, chiede al “compare nipote” di inviargliene altri perché lui non ha neanche più “…i soldi per pagare la lettera allo scrivano qui presente”.
Tavola del Pinelli raffigurante uno scrivano
La zona di piazza Montanara, ora non più esistente in quanto demolita in epoca fascista (a partire dal 1932) per la creazione della Via del Mare (ora Via del Teatro di Marcello), era nota come “Ad Elephantum”, in quanto al centro della piazza era stato anticamente eretto un monumento all’“Elephas erbarius”, in bronzo dorato, da cui tutta la contrada prese nome.
Una ricostruzione, di inizio '900, della statua dell'Elephas Erbarius
Nella zona (probabilmente proprio all'interno dello stesso Teatro di Marcello) era un carcere, la cui esistenza è provata nel “Liber Pontificalis” che dice che nel 772 alcuni assassini vennero tradotti “…in Elefanto, in carcere pubblico”.
Oltre all’elefante nella piazza era una fontana dei tempi di papa Sisto V, eretta su progetto del Della Porta: successivamente questa venne spostata, a seguito delle demolizioni del 1932, dapprima nel “Giardino degli Aranci”, sull’Aventino, e poi nella piazzetta di San Simeone, lungo via dei Coronari, davanti Palazzo Lancellotti.
Una foto, di inizio '900, raffigurante Piazza Montanara con la fontana poi rimossa
Ma torniamo a Santaccia.
Vista la categoria cui appartenevano i propri clienti, puntando più sulla quantità che non sulla qualità della propria opera, ottenne una fama tanto grande da essere ricordata perfino dal Belli, che appunto le dedicò due dei suoi sonetti, descrivendola come una donna tanto scaltra da saper "da' rresto", cioè dire il fatto suo a chiunque.
Con la sua malizia, che il Belli, neanche troppo sottilmente, ci canta, Santaccia aveva studiato il metodo per poter soddisfare contemporaneamente ben quattro clienti, applicando quello che possiamo definire il primo sconto comitive: infatti si dice, e il Belli ce lo descrive abilmente, che Santaccia concedesse le proprie prestazioni allo stesso prezzo ad uno solo come a quattro clienti assieme. Così facendo, lei aveva il suo stesso tornaconto economico appagando, di contro, sia economicamente che sessualmente, ben quattro clienti al posto di uno solo. Il tutto al costo di un baiocco ciascuno, lo stesso con cui si poteva prendere un caldo piatto di zuppa in una delle vicine locande. Una grande strategia di marcheting, a ben pensarci…
Per questo perfino un poeta come il Belli, nei suoi due sonetti, quasi la onora della sua stima, e ci dice che Santaccia era donna da rispettare e da trattare con i guanti:
SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA
Santaccia (1) era una dama de Corneto
da tocca' ppe rrispetto co li guanti;
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva da' rresto a ttutti cuanti.
Pijjava li bburini (2) ppiú screpanti (3)
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti,
fasceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei, pe ccontenta' er villano,
a ccorno pìstola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe' mmano.
E ppe' ffa' a ttutti poi commido er prezzo,
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo
uno pell’antro a un bajocchetto er pezzo.
(1) "Notissima e sozzissima meretrice di chiara memoria, la quale teneva commercio nella detta piazza, solito luogo di convegno dei lavoratori romagnoli e marchegiani per trovarvi a far opera"
(2) "Sinonimo de’ nominati villani"
(3) "Vistosi"
Santaccia era una donna di Corneto
da trattare per rispetto con i guanti;
e più ancora che fosse di castagno o abete (una donna risoluta)
sapeva trattare con chiunque.
Prendeva i villani più vistosi
a quattro a quattro, con un suo espediente:
lei stava in piedi, e quelli, uno davanti,
faceva il fatto suo, ed uno di dietro.
Nel frattempo, per accontentare i villani,
a cornu epistulae e a cornu evangeli
(il lato dell’Epistolario ed il lato del Vangelo, cioè i due lati dell’altare dove il sacerdote officia la messa: come dire a destra e a sinistra)
ne soddisfaceva altri due, uno per mano.
E per fare a tutti un prezzo conveniente
dava (faceva pagare le varie prestazioni sessuali)didietro, mani e pelo,
ognuno a un baiocchetto al pezzo.
Nell’altro sonetto a lei dedicato il Belli la dipinge, con la solita ironia, anche come un'anima pia e benevola (sempre nell’ambito del suo lavoro), quasi materna, al punto di dare il suo corpo gratuitamente, a mo’ di remissione dei propri ed altrui peccati, ad un bracciante burinello, voglioso ma senza denari in tasca per poter compensare una sua prestazione.
La perfezione del sonetto sta, oltre che nel rendere perfettamente la scena, nel gioco ambiguo dell'identificazione tra gli "uccelli", intesi sia come animali che come "membri" dei clienti, tra il "giorni di caccia" e le prestazioni sessuali di Santaccia, nel doppio senso della parola "allocco", intesa sia come volatile che come "persona ingenua".
E poi nelle due frasi, che analizzeremo in seguito: "e ccoll'arma e ccor zanto" e "e ttu nun pianti maggio".
Traspaiono, in questi versi, oltre la crudezza della scena, la misericordia e l’umanità di Santaccia che, pur dando via il proprio corpo in perverse pratiche erotiche, compie un atto di umana pietà nei confronti del poverello squattrinato.
Forse il suo nomignolo, Santaccia, dipende proprio da questa sua umanità, contrapposta al mercimonio che lei stessa fa del proprio corpo: la sua bontà d’animo, contrapposta alla sua facilità di costumi, danno vita al nome con cui ancor oggi la conosciamo (ed in effetti ne ignoriamo il vero nome, che dal Belli o da altri non venne mai trasmesso).
SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA
A pproposito duncue de Santaccia
che ddiventava fica da ogni parte,
e ccoll’arma e ccor zanto (1) e cco' le bbraccia
t’ingabbiava l’uscelli a cquarte a cquarte;
è dda sape' cc’un giorno de gran caccia,
mentre lei stava assercitanno l’arte,
un burrinello co' l’invidia in faccia
s’era messo a ggodessela in disparte.
Fra ttanti uscelli in ner vede' un alocco,
"Oh", disse lei, "e ttu nun pianti maggio?" (2)
"Bella mia", disse lui, "nun ciò er bajocco".
E cqui Ssantaccia: "Alò, vvièccelo a mmètte:
sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio
de cuell’anime sante e bbenedette".
(1) "Arma e santo, è il dritto e rovescio della moneta con che giuocano i plebei al così detto marroncino".
(2) "Frase di egual senso alla simile toscana".
A proposito, dunque, di Santaccia,
che poteva soddisfare sessualmente i clienti in diversi modi,
e con un lato e con l’altro del proprio corpo, così come con le mani,
soddisfaceva quattro uomini contemporaneamente;
bisogna sapere che in un giorno in cui aveva molti clienti
mentre stava fornendo le sue prestazioni sessuali,
un burinello con il desiderio dipinto in faccia
si era messo a godersi la scena (o, più probabilmente, a masturbarsi) in disparte.
Tra tanti uccelli, nel veder un simile allocco
gli disse: "Oh, e tu non pianti maggio?"
(piantar maggio identificava l'antica tradizione di piantare, appunto nel mese di maggio, nel terreno, come simbolo beneaugurante di fertilità, un tronco vivo ma senza foglie)
"Bella mia", disse lui, "non ho un bajocco per pagare la tua tariffa".
E Santaccia gli rispose: "Sù, vieni a mettercelo:
scegliti un buco, e te lo do' in suffragio
delle anime sante e benedette"
Caratteristica peculiare del Belli era quella di creare, in modo dissacrante, delle similitudini descrivendo atteggiamenti, anche altamente profani, con termini sacri o rimandanti a pratiche ecclesiastiche.
Come accennato, bellissime, in questo senso, nei due sonetti appena citati, sono le similitudini:
“…a ccorno pìstola e a corno vangelo…” e “…e ccoll’arma e ccor zanto e cco' le bbraccia…”.
“Cornu epistulae” e “cornu evangeli” stanno ad indicare, come detto in traduzione, i due lati dell’altare da cui il sacerdote officia la messa (il lato dell’Epistolario e quello del Vangelo), termini irriverentemente utilizzati dal Belli per indicare la mano destra e quella sinistra di Santaccia.
La frase “con l’arma e con il santo”, invece, è un riferimento numismatico (in particolare allo scudo d’argento in uso nel ‘700, fatto coniare dalla famiglia genovese degli Spinola, che poté vantare diversi cardinali, sulla cui faccia principale era “l’arma spinolina” (il padiglione e le chiavi papali), mentre sul retro era generalmente raffigurato un santo): questi termini stavano quindi ad indicare “il fronte e il retro”, il che, riferito al corpo di Santaccia, lascia poco spazio all’immaginazione…
Altamente ironici ed ulteriormente caratterizzanti, poi, anche i versi “che diventava fica da ogni parte”, nel senso che svolgeva le sue attività sessuali con diverse parti del corpo, e “…e ttu nun pianti maggio?”, in quanto, per tradizione derivata dai culti pagani e dalla tradizione contadina, nel mese di maggio era uso piantare nel terreno, come simbolo propiziatorio della fertilità dello stesso, un tronco d’albero vivo ma senza foglie (il parallelismo con il membro maschile è chiaro anche in questo caso).
Altri due sonetti del Belli, che menzioniamo, rendono quasi giustizia e moralità a queste donne che praticavano quello che è definito il mestiere più antico del mondo.
Nel primo, del 1832, il Belli ci presenta un’altra meretrice di strada, definendola perfino “sincera” perché chiede soltanto “tre ggiuli” al cliente di turno (quando poco fa abbiamo visto che le “onorate puttane”, con clientela di ben altro livello, avevano conseguentemente ben altri tariffari… cosa che si verifica, in effetti, ancora ai giorni nostri) e con tanto di assicurazione di esenza di malattie, dovuta alla sua pia abitudine di accendere settimanalmente un lumino sotto l'immagine della Madonna.
Io pulenta? Ma llei, me maravijjo!
Io so' ppulita com’ un armellino.
Guardi cquà sta camiscia ch’è de lino
si ppe bbianchezza nun svergogna un gijjo!
Da sí cche cquarc’uscello io me lo pijjo
io nun ho avuto mai 'sto contentino,
perché accenno ogni sabbito er lumino
avanti a la Madon-der-bon-conzijjo.
Senta, nun fò ppe ddillo, ma un testone
lei nu' l’impiega male, nu' l’impiega,
e ppò rringrazzia' Ccristo in ginocchione.
Lei sta cosa, che cqui nun me la nega,
che invesce de bbuttalli a ttordinone
tre ggiuli è mmejj’assai si sse li frega.
Io purulenta (= infetta, colpita da gonorrea)? Mi meraviglio di lei!
Io sono immacolata come un ermellino.
Guardi questa mio camicia di lino,
se per candore non fa vergognare un giglio.
Da quando pratico il mestiere,
non ho mai avuto questo premio (inteso, qui, come disgrazia),
perché ogni sabato accendo un lumino
davanti l'icona della Madonna del Buon Consiglio.
Ascolti, non lo dico senza cognizione, ma un testone (*)
lei non l’impiega male davvero,
e può ringraziare Cristo in ginocchio.
Lei non può negarlo
che invece di buttarli a Tor di Nona
(dov'era un teatro dove si davano opere di scarsa qualità),
è molto meglio se i tre giuli li impiega per fare sesso.
(*) il "testone", che valeva 3 giuli o 6 grossi o 30 bajocchi o 150 quattrini, era una moneta coniata fin dal '700 in diverse regioni d'Italia; prese il nome di testone poiché raffigurava, su una faccia, e sulla quasi totalità della stessa, il profilo del nobile che l'aveva fatta coniare.
L'ultimo sonetto che riportiamo è una vera e propria rivendicazione di dignità e pretesa di rispetto recitata da una meretrice nel rivendicare il suo "essere padrona del suo corpo e fiera della sua professione" ma che, contemporaneamente, si scaglia contro tutte le malelingue moraliste delle nobildonne che la offendevano per il suo mestiere ma che, poi, nell'intimità dei propri salotti, si comportavano come e peggio di lei, ben sapendo che, come recita il detto popolare, "Tira più un pelo di fica che una pariglia di buoi", stando ad indicare che, una donna, con una concessione sessuale può ottenere qualunque cosa da un uomo.
In questo magistrale sonetto c'è, quindi, un vero e proprio ribaltamento dei ruoli: la meretrice che rivendica la sua dignità morale e, allo stesso tempo, la sua condanna delle presunte dame, moraliste ed ipocrite, che, nelle loro case le rubano addirittura il mestiere.
Bbe’! Sso' pputtana, vènno la mi’ pelle:
fo la miggnotta, sí, sto ar cancelletto:
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da di'? Che ccose bbelle!
Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella come ttutte le zitelle:
e mmó nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.
Sai de che mme laggn’io? no dder mestiere,
che ssaría bbell’e bbono, e cquanno bbutta
nun pò ttrovasse ar monno antro piascere.
Ma de ste dame che stanno anniscoste
me laggno, che, vvedènno cuanto frutta
lo scortico, sciarrubbeno le poste.
Ebbene!? Sì, sono una puttana, vendo il mio corpo:
faccio la mignotta, sì, sto al cancelletto: (*)
lo prendo davanti e anche di dietro.
C’è qualcos’altro da dire? Che belle cose!
Ma sono stata anch’io, signor citrullo (cazzetto = uomo insignificante),
vergine come tutte le vergini:
e non c’è chi possa reclamare la restituzione dei soldi
sulla lana e la paglia del mio letto.
Sai, piuttosto, di che mi lagno? Non del mio mestiere,
che sarebbe anche bello e buono, e quando va bene
non se ne può trovare al mondo uno migliore.
Ma di tutte queste dame borghesi che si nascondono nella propria intimità
mi lagno, di queste che, vedendo quando frutta
l'essere mignotta, ci rubano i clienti.
(*) Alcune prostitute più abbienti ricevevano i propri clienti nelle loro case, attendendoli appoggiate al cancelletto o al davanzale di casa