05 febbraio 2007

LE FESTE ROMANE: IL CARNEVALE

E veniamo finalmente ad una delle feste romane più pazze, sentite e divertenti: il Carnevale, dalle origini millenarie. Infatti, già ai tempi dell'antica Roma si festeggiavano i “Saturnalia”, caratterizzati dalla licenza accordata agli schiavi di poter prendere il posto, anche burlandosene, del proprio padrone, ubriacarsi, stare alla sua stessa tavola, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe meritato frustate o altre punizioni corporali e, nei casi ancora più gravi, la morte. Il capovolgimento gerarchico prevedeva che i padroni si scambiassero di posto con i propri schiavi, li servissero a tavola e che non potessero cibarsi essi stessi finché gli schiavi non avessero mangiato e bevuto a loro piacimento. Senza dubbio nella settimana dei Saturnalia Roma era in preda a caos e confusione, come raccontano Seneca e Plinio il Giovane: quest'ultimo ci narra che durante i Saturnalia si rifugiava in una dimora appartata, lontana dalla sfrenatezza e dagli schiamazzi di quei giorni. Tipico della festa era anche lo scambio dei doni, per lo più candele e statuette in terracotta, in qualche modo analogo a quanto avviene nel nostro Natale.


I Saturnalia

Nel corso del X° secolo, forse per allietare gli animi del popolino ed “ammorbidirli” in previsione dell’austero imminente periodo di Quaresima, vennero instituite verso la fine di Gennaio, delle manifestazioni di svago, in forma di giochi e tornei cavallereschi, in seguito tramutatisi in vere e proprie feste di piazza, anche mascherate.
Il Belli così presenta la Quaresima in un suo sonetto del 1831:

L’editto pe’ la cuaresima

Er curato a la messa ha lletto er fojjo
Che cc’è l’indurto, e ccià spiegato tutto:
A ppranzo se connissce co’ lo strutto,
Ma la sera però ssempre coll’ojjo.

Carne de porco mai: sai che cordojjo
Sti jotti (1) de salame e dde presciutto!
Pe’ mme, ciò un zanguinaccio, ma lo bbutto;
Ché ïo nun vojjo scrupolo, nun vojjo.

La matina se pô pe’ ccolazzione
Pijjà un deto de vino e un po’ de pane,
Da non guastà er diggiuno in concrusione.

Poi disce a li cristiani e a le cristiane
D’abbandonà er peccato, e ffa’ orazzione
Sin che nun s’arissciojje le campane.

24 novembre 1831

(1) Ghiotti

Quindi fino alla fine del 1.300 il Carnevale consisteva in una grande festa pubblica, che terminava il Martedì Grasso con l’avvento della Quaresima: il termine Carnevale deriva infatti da "carnem levare", ‘togliere la carne’, con riferimento al giorno precedente la Quaresima, in cui (almeno i più ricchi, che potevano permettersela) sospendevano il consumo della carne.
La festa doveva rigorosamente essere indetta dal Papa con un apposito editto, ma poteva capitare, soprattutto in occasione di Anni Santi e Giubilei (quando veniva sostituita da celebrazioni liturgiche) oppure in caso di pestilenze, sommosse popolari o morte del papa stesso, che la festa non venisse celebrata, con gran delusione del popolo romano intero. Anche in vista di inasprimenti di tasse o inasprimento di provvedimenti disciplinari, ogni scusa era valida per sospenderne i festeggiamenti: ad esempio, nel 1837, il papa, con la “scusa” di un’epidemia di peste, ma in realtà per paura di sommosse popolari, non ordinò l’inizio del Carnevale. Il Belli riporta in altri due suoi sonetti il malcontento suo e del popolo:

Er Carnovale der ‘37

Oggi, ar fine, per ordine papale,
Cor pretesto (1) e la scusa del collèra,
ma ppe’ un’antra raggione un po’ ppiù vvera (2),
er Governo ha inibbito er Carnovale.

Dunque nun c’era d’arifrètte (3) ar male
De chi vvènne le mmaschere de scera?
Dunque nun c’era da penza’, nnun c’era,
all’abbiti d’affitto, eh Sòr Piviale!

E nnoantri che ffamo li confetti
E ttan’ e ttanti che ccampeno un mese
Còr trafico de lochi e mmoccoletti?

Ah! Cqui, ppe lo scacàrcio (4) de ‘sto Santo
Senza viggijja né llàmpene accese,
Roma, pe’ ddio, s’ha d’aridusce un pianto.

20 Gennaio 1837

1 pretesto
2 i timori del papa
3 riflettere sui danni provocati a chi “viveva” con i proventi degli oggetti carnevaleschi
4 timidezza, timore, del papa


Er primo giorno de Quaresima

Finarmente è spicciato (1) Carnovale,
Corze, bballi, commedie, oggi ariduno:
so’ ttornate le scennere e er diggiuno:
mo’ de prediche è tempo e de caviale.

De tanti sscialacori oggi gnisuno
Po’ ssoverchia’ chi nun ha uperto l’ale:
er zavio e ‘r matto adesso è ttal e cquale:
oss’è goduto o nno’, ssemo tutt’uno.

Addio ammascherate e carrettelle,
pranzi, cene, marenne e colazione,
fiori, sbruffi, confetti e carammelle.

Er Carnovale è mmorto e sseppellito:
li mòccoli hanno chiusa la funzione:
nun ze ne parla ppiù: tutt’è ffinito.

17 Febbraio 1847

(1) terminato


Il Carnevale aveva una durata di undici giorni (ma le corse e le feste in maschera, che iniziavano il Sabato, venivano sospese il Venerdì e la Domenica, quindi il tutto si riduceva, effettivamente, ad otto giorni). La caratteristica che lo rendeva una festa “scatenata” era il fatto che, almeno in questo breve periodo, era consentita la trasgressione alle rigide disposizioni di ordine pubblico, la maggior parte di origine religiosa, che vigevano a Roma in quei secoli e che i tutori dell’ordine regolavano rigorosamente. Si pensi che durante la Quaresima perfino le rappresentazioni teatrali venivano sospese e nei mercati non potevano esibirsi i saltimbanchi. Fino al XIV° secolo la festa si svolgeva soprattutto in Piazza Navona e sul Monte Testaccio: in Piazza Navona si svolgevano tornei prettamente medievali (esibizioni di cavalieri che, cavalcando a pelle, dovevano colpire un bersaglio rotante o infilare con la loro lancia un anello pendente da una trave) mentre a Testaccio si svolgevano delle tauromachie e la triviale Ruzzica de li Porci: dalla cima della collina venivano lanciati in discesa dei carretti carichi di maiali. Rovesciandosi o infrangendosi i carretti contro alberi o rocce i maiali venivano sbalzati fuori ed erano contesi dalla gran folla che si era radunata sulle pendici.



Tauromachia sul Monte Testaccio

Il primo carnevale romano “moderno”, che ha poi dato origine a tutti i principali carnevali del mondo, con le sue maschere, i carri ed i festeggiamenti in strada, e che nel Rinascimento oscurò per fama anche il famoso Carnevale di Venezia, fu introdotto nel corso del Quattrocento dal papa veneziano Paolo II° il quale, per inaugurare il suo palazzo (Palazzo Venezia, a ridosso della Chiesa di San Marco, protettore di Venezia), lo trasferì in Via Lata, l’attuale Via del Corso che, in effetti, dal ‘600 al ‘900 fu il vero asse principale della vita sociale ed economica di Roma: la mattina vi si incontravano mercanti, uomini d’affari e politici; il pomeriggio, invece, si trasformava in luogo d’incontro ed era percorsa da entrambi i lati da una fila interminabile di carrozze gentilizie. Due curiosità su questa strada: intanto bisogna dire che altro non era, e in pratica lo è tuttora, se non il tratto “urbano” della Via Flaminia; l’altra curiosità è che attualmente la Via Lata non è altro che un vicoletto (in cui è stata successivamente spostata la Fontanella del Facchino) che collega Via del Corso con Piazza del Collegio Romano. Durante i festeggiamenti, che attiravano migliaia di persone anche da fuori Roma, tanto che i balconi affaccianti su Via del Corso venivano affittati per laute somme era lecito circolare mascherati, ma, sempre per la sicurezza dell’ordine pubblico, soltanto fino al tramonto era possibile coprirsi il viso con una maschera.


Sonne - Carnevale a Via del Corso

In questo periodo, dominato da canti, balli, lanci di “confetti” (pallottoline di gesso colorate) e di “sbruffi” (gli attuali coriandoli), mascherate, scherzi e da sontuosi banchetti pubblici, facevano affari d’oro i venditori di maschere di cera e cartapesta, che affollavano le strade limitrofe il Corso, e perfino, cardinali, preti e monache potevano parteciparvi, anche se lo facevano solo nell’ambito dei loro relativi conventi. Le maschere più in voga, caratterizzate da stracci e pezze multicolori, erano quella del notabile, del mendicante, della popolana (generalmente erano ovviamente gli uomini ad agghindarsi da popolana); il ricco si vestiva da povero ed il povero… tentava di “spacciarsi” per ricco. Il tutto perfezionato con pettinature stravaganti.
Altre caratteristiche del Carnevale Romano erano la Corsa dei Ragazzini, quella degli Asini, quella dei Bufali, la sfilata di carri stracolmi di gente mascherata e urlante, e le battaglie con arance, confetti, mele e rape, che poi Papa Sisto V° proibì per la loro pericolosità: decine erano, infatti, ogni volta i feriti, anche gravi. C’erano poi la Corsa degli Zoppi, dei Deformi, dei Nani, degli Ebrei anziani e quella degli Storpi (tutte, per la verità, di dubbio gusto), durante le quali i “competitori” erano oggetto di lanci di oggetti vari e di epiteti di facile interpretazione da parte del popolino spettatore; queste corse, in particolare quella degli Ebrei, vennero dopo breve tempo sostituite da Papa Clemente IX°, nel 1667, con la Corsa dei Cavalli Bàrberi, che, in ognuna delle giornate del Carnevale, si svolgeva prima del tramonto in Via del Corso. Il prezzo che gli Ebrei dovettero pagare consistette nell’accollarsi gran parte delle spese del Carnevale e nel doversi, per giunta, sottomettere ad una cerimonia farsesca nel corso della quale il Rabbino Capo si doveva inginocchiare in Campidoglio davanti al Senatore ed ai Conservatori pronunciando un discorso di contrizione al quale il Senatore rispondeva con le parole: “Andate ! Per quest’anno vi soffriamo”, rifilando poi un calcio nel sedere al Rabbino inginocchiato.
La “mossa”, che liberava il galoppo dei cavalli, senza fantino, avveniva in Piazza del Popolo e l’arrivo era in Piazza Venezia, proprio sotto il balcone del palazzo del Papa (balcone che qualche secolo dopo diverrà famoso per altri “mussoliniani” motivi).


G.F. Perry - La mossa dei Bàrberi


Ancora la mossa dei Bàrberi

Tutta Via del Corso era invasa da migliaia di popolani che incitavano, stando in bilico su un piccolo marciapiede a gradino, o rincorrevano i cavalli al galoppo: inutile dire che questi comportamenti provocavano ogni giorno feriti o addirittura morti. Proprio in Piazza Venezia, ben più piccola di quanto non sia ora, venivano sistemati dei teli per “chiudere” il percorso ai cavalli, che venivano presi “al volo” da stallieri, soprannominati “barbareschi”.


Bartolomeo Pinelli - La "Ripresa" dei Bàrberi


Bartolomeo Pinelli - Il Carnovale de Roma

Il proprietario del cavallo vincitore riceveva in premio una drappo di stoffa preziosa ricamata, “gentilmente offerta” dalla comunità ebraica. La cavalcata dei Bàrberi venne sospesa da Vittorio Emanuele II° (presente al fatto) nel 1874 quando un giovane, che distrattamente attraversò Via del Corso durante il sopraggiungere dei cavalli, venne travolto ed ucciso. I festeggiamenti del Carnevale Romano si protrassero, invece, fino al 1896.
Un’altra curiosità di questa festa è che, nel corso dei secoli, vi presero parte, con grande entusiasmo e coinvolgimento, personaggi famosi: Standhal (che definì Via del Corso “la strada più bella dell’universo”), Goldoni (che, nel 1753, la racconta così: “… Non è possibile farsi un’idea del brio e della magnificenza di questi otto giorni… una folla di maschere che corre e canta… gettando confetti a staia che loro vengono restituiti… di modo che la sera si cammina sopra farina inzuccherata…”), Casanova, Goethe, Dickens, Paganini e Rossini (questi ultimi due vi parteciparono vestiti da donna nel 1822), per finire con Massimo D’Azeglio e, come detto, Vittorio Emanuele II°.
Il Carnevale terminava con un vero e proprio “funerale” (in origine, alla conclusione dei Saturnalia, si dava fuoco ad un fantoccio di paglia e cenci per esorcizzare i mali dell’anno trascorso e per rendere benigni gli eventi futuri); particolarmente romantica era poi la Corsa dei Lumini (chiamati dai romani “Li Moccoletti”): migliaia di lumini e candele venivano accesi sui davanzali delle finestre dei palazzi di Via del Corso ed altri venivano portati in corsa dai partecipanti, che si proteggevano dalla cera fusa circondando la candela con un foglio di carta colorata o grezza. Durante la corsa i popolani cercavano di spegnersi l’un l’altro il Moccoletto.


Ippolito Caffi - I Moccoletti al Corso

In fin dei conti il Carnevale era considerato dal popolo, oppresso dai duri lavori e dagli stenti quotidiani, una vera e propria valvola di sfogo, tanto che ogni eventuale impedimento al suo svolgimento era malvisto: addirittura la morte di Papa Leone XII° (già di per se malvisto), avvenuta durante il Carnevale del 1829, venne malamente commentata da Pasquino:


Tre dispetti ci festi, o Padre Santo:
accettare il papato, viver tanto
morir di Carneval per esser pianto”.

3 commenti:

Saffron ha detto...

Ciao,
i tuoi racconti sono sempre interessanti!
Sai che dopo il tuo post su Via Giulia adesso ho preso l'abituddine di guardare in alto quando ho la possibilità di fare passeggiate di relax a Roma!

JAJO ha detto...

hehehehe, fai benissimo Saffron: ci sarà sempre qualcosa pronto a colpire il tuo occhio: una finestra, una cupola, una scritta, un angelo...
Continua così :-D

Anonimo ha detto...

Caro Jajo, sono un amante delle bellezze di Roma che purtroppo vengono continuamente bistrattate. Sto realizzando un documentario, a carattere personale, sulle "Madonnelle" e mi sono imbattuto sul tuo sito.
E' fatto molto bene e ti faccio i miei più sinceri complimenti.
Mi hai dato anche lo spunto per fare altri "lavoretti".
Ciao, Giancarlo